A cura di Angelo Meda, Responsabile Azionario di Banor

Non è tutto oro quel che luccica

Alla ricerca delle pepite d’oro anche nei settori che non luccicano.


“Non è tutto oro quello che luccica”: l’origine del proverbio è antica, ma grazie ad alcune opere letterarie è entrata nel linguaggio comune. La usano in particolare Shakespeare ne “Il Mercante di Venezia” e Tolkien ne “La Compagnia dell’Anello”: il primo per bocca di Porzia, che utilizza un cofanetto dorato, uno argentato e il terzo di piombo per scegliersi uno sposo; il secondo attraverso la penna di Gandalf per avvertire dell’importanza di vedere e giudicare le cose con maggiore profondità rispetto a ciò che appare alla vista.

L’indice americano S&P500 è in rialzo del 15% circa da inizio anno e il Nasdaq è salito in sette delle ultime otto settimane: il 2024 sembra dunque un anno roseo per gli investitori in azioni, posizionandosi tra i migliori primi sei mesi della storia e per gli amanti delle statistiche è sul gradino più alto del podio, se consideriamo gli anni in cui ci sono state le elezioni presidenziali americane.

Ma… non è tutto oro quel che luccica. La parola d’ordine oggi in inglese è “narrow”. Letteralmente significa stretto, corto, limitato. Il rialzo da inizio anno è concentrato su pochi nomi, in particolare uno (Nvidia), che da solo ha pesato per un terzo sul ritorno totale, mentre i primi cinque hanno pesato per il 56% e i primi dieci per il 78%. La discrepanza è evidente quando si confronta la differenza di rendimento tra l’indice equipesato (dove quindi tutti i titoli pesano lo 0,2%) e quello invece pesato per capitalizzazione.

Fonte: elaborazione dati Banor su base Bloomberg

 

Nel 2024 l’indice pesato per capitalizzazione ha reso il 10% in più dell’indice equipesato, dopo un 2023 che già aveva visto 13 punti circa di differenza a suo favore. Sembra quasi un revival degli anni 1998 e 1999, quando pochi titoli e pochi settori contribuivano alla performance dell’indice. Ci dobbiamo quindi preoccupare visto quanto successo negli anni successivi o possiamo usare le magiche parole “This time is different”?

Sicuramente rispetto agli anni 1998 e 1999 oggi c’è meno “esuberanza irrazionale” (come la definiva Greenspan) e la crescita delle grandi società tecnologiche è supportata dall’andamento degli utili e della generazione di cassa. Non è solo una valutazione concettuale di multipli sugli utenti o simili come si vedeva in quegli anni, ma non possiamo pensare che gli indici azionari possano reggersi solamente sull’andamento di pochi titoli: il settore tecnologico, ad esempio, impiega tra 4 e 5 milioni di persone in USA, a seconda della definizione di tech, su un totale di lavoratori pari a 133 milioni: nella migliore delle ipotesi pesa quindi il 4% scarso dell’occupazione totale, mentre il restante 96% degli occupati lavora in altri settori che seguono dinamiche diverse. Non possiamo quindi pensare ad una economia che si basa solamente sul tech: a lungo andare anche gli altri settori devono contribuire alla crescita economica per renderla sostenibile.

La parola che quindi sta girando sui mercati è “catch up”: altri settori parteciperanno al rialzo azionario o no?

Anche in Italia possiamo fare un ragionamento simile: il nostro indice azionario è caratterizzato da una forte concentrazione, però verso il settore finanziario. Questo può portare a forti differenze tra l’indice principale FTSEMIB e l’indice delle small e mid caps STAR, più esposto ai cosiddetti “Italian champions”, società che operano in settori di nicchia a livello nazionale e internazionale e che nel lungo periodo tendono a seguire le dinamiche del Nasdaq.

Fonte: elaborazione dati Banor su base Bloomberg

 

Nel caso italiano vediamo che è il terzo anno consecutivo in cui l’indice FTSEMIB sovraperforma lo STAR, cosa mai avvenuta nella storia e giustificata dal cambio di regime sui tassi di interesse che ha visto cambiare totalmente percezione e valutazione del settore bancario. Ma anche in questo caso, può continuare?

La nostra opinione è che bisogna andare a scavare a fondo negli indici azionari, cercando le pepite d’oro anche nei settori dell’economia che non luccicano: se negli ultimi anni è stato sufficiente cavalcare un’onda (banche in Italia, tech in USA, etc) e investire nell’indice, oggi la dispersione dei rendimenti tra titoli e settori permette ai gestori attivi di costruire posizioni combinando i vincenti dei trend strutturali (farmaci contro l’obesità, intelligenza artificiale, digitalizzazione, etc) con i campioni dei settori più tradizionali, caratterizzati da solidità finanziaria e posizionamento di leadership, che verosimilmente quotano a valutazioni non estreme.


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